martedì 24 febbraio 2009
La fine della crisi è lontana
Sono queste le parole di Bernanke di pochi minuti fa. "E' fondamentale che i Governi continuino i loro sforzi di stimolo dell'economia reale, le loro mosse per ristabilizzare i mercati finanziari. Se le contromisure adottate dal governo, dal congresso e dalla Federal Reserve, riusciranno a ristabilizzare i mercati finanziari, la crisi potrebbe terminare alla fine del 2009 e il 2010 sarà l'anno della grande ripresa"
Bernanke, presentando alla Fed il suo resoconto semestrale sulla politica monetaria,ha detto che, a suo parere, un'altro grande rischio è la natura globale della crisi, che potrebbe minare le esportazioni americane e rendere più difficile la ripresa della finanza americana. Ha aggiunto che la Fed, dopo aver tagliato i tassi, portandoli prossimi allo zero, lì terrà bassi per qualche tempo e userà tutti i mezzi a sua disposizione per stimolare la ripresa.
Fiat is Junk
Ormai investire in Fiat è pura speculazione borsistica. Lo ha detto Moody's che ha abbassato il rating a lungo termine da Ba1 a Baa3, equivalente cioè a un junk a basso titolo. La traduzione italiana di Junk è "robaccia", cio vuol dire che l'agenzia di rating ha classificato come tale la nostra più grande industria. Ormai acquistare azioni Fiat, non vuol dire investire, ma speculare, poichè il rendimento è altissimo e di conseguenza anche il rischio. Ovviamente ieri la borsa ha visto negativamente questa bocciatura e il titolo ha chiuso a 3,54 euro. Stamane il titolo continua a perdere e secondo me, continuerà a perdere per ancora 4/5 giorni.
Queste nuove arrivano proprio contemporaneamente al nuovo piano di fidelizzazione e incentivazione. Secondo la nota del Lingotto il piano «tiene conto dell'attuale situazione dell'economia reale e dei mercati finanziari e della scarsa attrattività dei piani in essere» e dunque «sarà basato su parametri di misurazione delle performance coerenti con la nuova situazione di mercato», con l'obiettivo di «assicurare il coinvolgimento e la retention (motivazione, ndr) delle persone chiave per la crescita del gruppo, allineandone gli interessi a quelli degli azionisti».
mercoledì 4 febbraio 2009
Il presidente Rbs Lascia prima del dovuto
Tom McKillop, ha lasciato la poltrona di presidente della RbS, ben due mesi prima di quanto precedentemente programmato. Questo cambio di programma, autorizza Philip Hampton, presidente di J Sainsbury e attuale vice-presidente di RbS, a rimpiazzare Tom McKillop immediatamente invece di aspettare il Cda annuale di Aprile, come precedentemente programmato.
McKilop è sotto pressione da quando RbS ha accettato una iniezione di liquidità di £20 Mld dal governo inglese ad ottobre.
Non vi è infatti motivo di aspettare fino ad Aprile di fare il cambio se questa sostituzione è stata decisa già da un mese. Questa brusca partenza al termine di questi tre anni di mandato, un periodo nel quale quello che era uno dei più grandi istituti finanziari è stato obbligato a cercare un nuovo governo
giovedì 29 gennaio 2009
Scandalo Madoff: Jp Morgan salva, i clienti no
Finora si è sempre pensato che il colosso finanziario americano JPMorgan Chase fosse completamente estraneo allo scandalo finanziario del secolo, il cosiddetto "schema Ponzi" di Bernard Madoff. Ma non è così.
Come Nomura, Banco Bilbao e Bnp Paribas, anche J.P. Morgan (questa la denominazione dell'istituto in qualità di emittente), la più grande banca americana in termini di capitalizzazione, ha tuttora sul mercato strumenti derivati che portano in calce il suo nome indicizzati per contratto al rendimento di due dei cosiddetti feeder fund, i fondi che raccoglievano denaro in giro per il mondo e lo davano da gestire alla Bernard L. Madoff Investment Securities (Blmis). I fondi in questione sono il Sentry e il Sigma, che era la sua versione in euro, del gruppo Fairfield Greenwich, che nello scandalo risulta aver perso circa sette miliardi di dollari.
Eppure J.P. Morgan ha dichiarato di non avere praticamente alcuna esposizione - né diretta né indiretta - sui fondi legati a Madoff. Il motivo di questa apparente contraddizione è semplice: meno di tre mesi prima dell'arresto di Madoff, la banca newyorkese ha ritirato i propri capitali dai due fondi, mettendo al sicuro i soldi alla vigilia del crollo della gigantesca catena di Sant'Antonio messa in piedi dall'ex presidente del Nasdaq. La banca non ha mai informato gli investitori della sua mossa e alcuni di loro sono oggi infuriati per il fatto di essere stati lasciati con certificati che la banca dice essere privi di valore.
Kristin Lemkau, portavoce di JPMorgan Chase, ha confermato che la banca ha ritirato i propri capitali dai fondi legati a Madoff nell'autunno scorso, «dopo un'analisi della nostra esposizione nei fondi hedge» e sulla base di «preoccupazioni sulla mancanza di trasparenza».
A detta di Lemkau, gli investitori non sarebbero stati avvertiti della....
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2009/01/caso-madoff-jp-morgan.shtml?uuid=f2dce3fa-edd9-11dd-b661-611d2c94894a&DocRulesView=Libero
lunedì 26 gennaio 2009
La Cina è meno attratta dal debito americano
La Cina ha comprato oltre un trilione di dollari di debito publico americano, ma la recessione mondiale è cresciuta e Pechino sta iniziando a riportare parte di quei soldi a casa, questa decisione potrebbe essere molto dolorosa per i mutuatari americani
Il decrescente interesse cinese per il debito americano arriva in un brutto periodo
Il presidente Barack Obama ha preannunciato un deficit di un trilione di dollari per gli anni a venire, successivo al pacchetto di 800 mld di dollari appena stanziato. Normalmente la Cina, sarebbe stata la prima ad accaparrarsi i buoni del tesoro a breve termine.
Negli ultimi 5 anni, Pechino ha speso un settantesimo del suo pil interno per comprare debito straniero, americano sopratutto. A settembre ha superato il Giappone come più grande titolare di certificati del tesoro oltreoceano.
Ma ora Pechino deve pagare il suo pacchetto "anti crisi" di 600 miliardi di dollari, anche perchè il gettito fiscale sta crollando bruscamente così come l'economia cinese sta rallentando. Il regolatore nazionale ha ordinato alle bance di prestare più denaro alle piccole e medie imprese, molte delle quali stanno fallendo per la diminuzione delle esportazioni, e ha ordinato al governo di stanziare più denaro per le piccole opere pubbliche.
L'agenzia di rating Fitch ha annunciato che le riserve di monete straniere cinesi aumenteranno ma solo di 177 miliardi di dollari, invece dei 415 miliardi attesi.
La fortissima richiesta di bond federali, da parte dei cinesi, ha aiutato il governo americano a tenere basso il tasso d'interesse da corrispondere ai suoi creditori, mentre il ridotto interesse cinesi potrebbe spingere su i tassi d'interesse che gli Usa devono corrispondere ai creditori.
Per ora, sicuramente, sembra non ci sia carenza di compratori del debito pubblico americano. Per quanto, invece, riguarda il lungo termine, questo modo dei cinesi di utilizzare questi soldi, potrebbe portare al miglioramento delle condizioni di vita dei cinesi e una mnor dipendenza degli americani verso le scelte della Cina. Questo cambio di rotta deve essere graduale e non repentino, così che non riduca il valore dei bond americani e neanche delle enormi riserve cinesi in moneta e obbligazioni
venerdì 23 gennaio 2009
I problemi economici di Obama
Bellissimo articolo di Daniel Gros tratto da http://www.lavoce.info/post-create.g?blogID=4233591188452820442
Sembra prendere forma in questi giorni un nuovo “Washington consensus”, secondo il quale la capacità di indebitamento dell’amministrazione Usa è limitata. Sostanzialmente, si pensa che un pieno utilizzo di ciò che resta dei fondi del piano Tarp varato dall’amministrazione Bush, circa 650 miliardi di dollari, più un pacchetto di provvedimenti da 850-1.000 miliardi di dollari per il biennio 2009-2010 sia il limite superiore oggi dell’intervento di politica fiscale negli Stati Uniti. È una visione che non può durare a lungo perché dovrebbe essere ormai chiaro che anche l’intero stanziamento del Tarp non è sufficiente per rivitalizzare il settore finanziario.
LA CONTABILITÀ PUBBLICA PRUDENTE DEGLI USA
Una delle ragioni per le quali i deficit Usa sembrano così grandi è che la contabilità pubblica degli Stati Uniti è spesso più predente di quella europea. L’elemento chiave da tenere a mente quando si leggono i rapporti sui deficit fiscali Usa è che l’autorità ufficiale , il Congressional Budget Office (Cbo) conteggia come “spesa” nell’anno fiscale 2009, che va da settembre 2008 settembre 2009, il salvataggio delle agenzie di finanziamento e garanzia dei mutui ipotecari, come Fannie Mae e Freddie Mac, per un ammontare di 240 miliardi di dollari. Inoltre, il Cbo calcola che l’elemento di sovvenzione nel Tarp sia di circa il 25 per cento, che implica un’ulteriore spesa nominale per l’anno fiscale 2009 di 180 miliardi di dollari. Le stime per il 2009 del Cbo destinano dunque 420 miliardi di dollari a capitoli che la contabilità nazionale non considererebbe “spese”. Il pacchetto di misure biennali preso in considerazione dalla nuova amministrazione dovrebbe ammontare a circa 800-900 miliardi di dollari, ovvero 400-450 miliardi l’anno. Ciò significa che riportato a dati confrontabili con quelli europei (più il pacchetto Obama, meno le spese per salvataggi sui mercati finanziari), è probabile che il deficit federale degli Stati Uniti sia vicino alla cifra prevista dal Cbo, ovvero l’8-9 per cento del Pil. (vedi tabella)
Fonte: Cbo
IL TARP È SUFFICIENTE?
Anche una ricognizione sommaria dimostra come il costo fiscale, definito come aumento del debito pubblico, di una crisi finanziaria così diffusa come l’attuale, debba essere molto alto.
Crisi di questa portata costano di solito molte decine di punti percentuali di Pil. Ma il totale dei fondi mesi a disposizione dal Tarp è di soli 700 miliardi di dollari, circa il 5 per cento del Pil. È troppo poco per far fronte alla più grave crisi degli ultimi cinquanta anni.
Una cristi che ha contagiato l’intero mercato dei mutui americani e si è estesa alla maggior parte delle altre forme di credito alle famiglie (auto, carte credito, prestiti personali e così via), non può essere risolta a buon mercato.
Il costo complessivo dove per forza essere molto superiore al 5 per cento del Pil, se solo si considera che il debito complessivo delle famiglie americane ammonta a circa 14mila miliardi di dollari, vale a dire il 100 per cento del Pil. Con i prezzi delle case che probabilmente scenderanno di un ulteriore 30 per cento (una stima ragionevole se si considera che il rapporto prezzi-affitti è ancora ben al di sopra dell’equilibrio a lungo termine) le perdite sui mutui si attesteranno probabilmente tra il 20 e il 30 per cento. Si deve poi tener presente che i mutui americani sono di fatto (e spesso di diritto) “non rinegoziabili”, il che significa che il debitore può limitarsi a mandare indietro le chiavi alla banca se il valore della casa scende al di sotto della somma che ancora deve restituire. Con un totale di mutui in sospeso di circa 10mila miliardi (70 per cento del Pil), perdite del 20-30 per cento implicherebbero perdite per il sistema finanziario di 3mila miliardi, vale a dire circa il 20 per cento del Pil. A questo si dovrebbero aggiungere le perdite di circa 4mila miliardi di credito al consumo alle famiglie e altri debiti in sospeso. Con una forte recessione in corso, l’insieme delle dei debiti per le famiglie può essere considerevole. Il totale delle perdite del solo sistema finanziario sui prestiti alle famiglie americane, deve essere perciò superiore ai 3mila miliardi. Se il sistema bancario americano e il sistema finanziario nel suo complesso vuole riprendersi, deve riuscire a ripulirsi da queste perdite. Altrimenti le banche non riprenderanno a erogare nuovamente credito. Qualsiasi operazione che vuole ripulire il settore finanziario deve perciò essere di almeno il 20-25 per cento del Pil. Questa è la dimensione della sfida che deve affrontare il neo presidente Barack Obama.
Foto: da www.whitehouse.org
mercoledì 21 gennaio 2009
MISSION (IM)POSSIBLE
I dati economici di ieri hanno fatto paura a tutti. Si parla di recessione, disoccupazione crescente, e soprattutto di una profondissima crisi del credito.
Ieri Mario Draghi,governatore di Bankitalia, ha tenuto la consueta riunione a palazzo Koch con gli altri banchieri italiani. La riunione, considerata da Draghi di estrema importanza, è stata incentrata sulla richiesta di quest’ultimo di rendere più rapida e facile la cessione del credito ai privati. Ciò è di fondamentale importanza vista la situazione di stallo del credito italiano, in cui le banche non hanno più fiducia nelle imprese e i privati cittadini non hanno più fiducia nelle banche. L’ italia ha bisogno di nuovi investimenti, soprattutto in questo momento, e le imprese che vogliono investire hanno bisogno dei prestiti bancari per poterlo fare. Sorge una questione: vista la necessità di ridurre i rischi bancari intrinseci ad ogni operazione del genere, come si fa a proporre alle banche di fidarsi di più delle imprese se queste al momento non appaiono affidabili. E’ un controsenso. Ma cosa fare altrimenti? Possibile che sia questa la sottilissima linea sulla quale le banche devono destreggiarsi?Si. Sarà molto difficile ma le banche devono concedere prestiti nel modo più veloce e indolore possibile, ma allo stesso tempo devono diminuire la rischiosità dei loro assets finanziari. Devono quindi guardare non solo ai bilanci delle società, che in questo periodo non sono dei migliori, ma devono considerare altri fattori meno matematici e più soggettivi e tutto ciò, considerando il bisogno di ridurre la propria esposizione al rischio. Mission Impossible? No, non si può fallire, poiché propri questi due fattori devono essere fondamentali per una ripresa economica che deve essere la più veloce possibile
Are you such a dreamer to put the world to rights?
Nel lontano 2001 un album dei Radiohead cominciava con queste profetiche parole; intuizione o chiaroveggenza non ci è dato di saperlo però possiamo sempre stare con chi dice che il lavoro di un artista è capire il proprio tempo. In quel periodo era appena scoppiata la bolla sui tecnologici ed erano appena crollate, con le Twin Towers, tutte le certezze della prima potenza mondiale. Non andava benissimo. Ma una coraggiosa ripresa aveva fatto tornare il sorriso a molti nel giro di pochi anni, soprattutto in borsa dove i listini rapidamente riIsalirono ben oltre le aspettative “razionali”.
Due anni fa quella situazione sembrava lontana, sebbene l’economia reale a stelle e strisce non stesse attraversando il suo momento migliore, poi è iniziato tutto. Non è mia intenzione trattare dei fatti ma una piccola digressione sugli errori del sistema bancario va fatta perché si è tentato di fare qualcosa d’impossibile; si è tentato di credere che 2 + 2 facesse sempre 5, il titolo della canzone da cui è tratta la strofa ( 2+2=5 ), questa volta però non è stato il Grande Fratello con la sua stanza 101 ma il Grande Profitto con le immense possibilità che ci concede la nostra libertà e l’invenzione delle SPV; però i risk managers, un po’ la psicopoliza di Orwell, avevano di certo sopravvalutato la loro bravura nel commisurare la probabilità di fallimento o l’esposizione al momento del fallimento, il che si traduce in un errore di stima del rischio, così tristemente 2+2 non ha fatto più sempre 5 ed il sistema della cessione del credito attraverso la cartolarizzazione si è rivoltato proprio contro chi l’aveva creato, con le disastrose conseguenze che sappiamo.
Oggi siamo consci del fatto che quella equazione e la spasmodica ricerca da parte del sistema bancario di ottenere profitti, laddove non si potrebbe, sono pericolosamente irrazionali; anche sconsiderati se vuoi fondarci un mondo sopra. Stiamo provando sulla nostra pelle le conseguenze della pretesa di modificare a piacimento la realtà, non a caso 1984 è stato sempre definito il romanzo dell’utopia negativa, ma soprattutto stiamo assistendo ad un fenomeno ben più radicale, un qualcosa che ci riporta indietro di 80 anni (1929).
La dimostrazione di fragilità delle banche ha infatti acuito la sfiducia della gente nei confronti del sistema finanziario ma se in precedenza con l’olio di gomito ci si era sempre ripresi oggi l’alacrità della crisi, testimoniata dal crollo dei listini nel 2008 nel più generalizzato dei “si salvi chi può, prima le donne ed i bambini, no no prima io prima io”, sembra aver minato la fiducia di tutti; e non c’è nulla di peggio per una banca, probabilmente. E’ intrinseco che affidare i propri risparmi a qualcun altro abbia come premessa la necessaria fiducia ed è oltremodo palese che di questi tempi la fiducia nel sistema bancario stia scemando. Una situazione del genere è però non poco problematica perché da una parte c’è l’immobilismo delle banche, che non vogliono rischiare i propri “risparmi”, e dall’altra c’è la fuga dei consumatori, fomentata dallo stesso sentimento; questo immobilismo però si sta drammaticamente trasmettendo sull’economia reale, usando un’abusata iperbole, come un cancro che debilita un corpo sano.
Poi è arrivato Lui, quello che in molti considerano l’uomo della provvidenza, il suo motto ha conquistato l’epicentro della crisi, il cuore del tumore; un motto facile ma d’effetto, di quelli che piacciono oltreoceano, “Yes We Can” . Barak Obama ha rapidamente surclassato lo ieraticismo dei suoi antagonisti che veniva di certo percepito dall’opinione pubblica anche come l’attaccamento al passato ed alle lobbies, quindi anche al sistema bancario, e lo ha fatto col positivismo e con quell’aria da sognatore che strizza l’occhio al sacro concetto del Sogno Americano.
“Yes We Can” poi era un motto che stava bene sulla bocca di tutti, dal broker che non se la spassava più tanto a Manhattan, alle banche che raccoglievano i cocci di altre banche, ai giovani che non vedevano più così roseo il loro futuro, all’ultimo contadino dell’Arkansas che doveva anche lui raccogliere il grano e qualche coccio di banca. Tutti loro sono stati per un giorno, dentro il seggio elettorale, dei così grandi sognatori da voler mettere il mondo a posto ed hanno deciso di dare fiducia a quello che sembra il nostro Winston Smith, “l’ultimo Uomo d’Europa” alias il pensatore fuori dal coro.
Ieri l’uomo della provvidenza è diventato ufficialmente il quarantaquattresimo presidente eletto degli USA; la speranza di un “Obama Deal” può trasformari in qualcosa di reale ma l’avvento della sua era passa anche attraverso il rinnovarsi della fiducia verso il sistema finanziario, che rimane un’indispensabile fonte di sostentamento per il libero mercato. Le crisi sono tali perché sono il manifestarsi di qualcosa d’inaspettato ma la fiducia non va persa perché il mondo si è rialzato negli anni trenta, si è rialzato negli anni settanta, si è rialzato nei primi anni novanta e può farlo di nuovo, bisogna però darla ed averla questa fiducia, bisogna smettere di avere paura e ricominciare a vivere. Bisogna investire nel futuro e garantire un presente senza dimenticare gli errori del passato. Bisogna cogliere le possibilità e risolvere l’equazione che ci fornirà la panacea. Durante il discorso di Obama, ieri, nella mia mente si è prodotta la strana commistione tra realtà e orwelliana finzione ed ho pensato: “Quasi inconsciamente, Winston Obama, scrisse con le dita sul tavolo coperto di polvere: 2+2 = x“.
martedì 20 gennaio 2009
L'ultimo giorno di George W. Bush
Se n'è andato. Il suo mandato è finito. Un giorno atteso da molti. E' stato per molti uno dei peggiori presidenti degli ultimi anni, fatto sta che rimane uno dei pochi ad aver beneficiato del doppio mandato, con un' approvazione popolare che superava il 60%. Forse è ancora troppo presto per giudicarne le azioni, ma sicuramente non è il tempo per tacere. E' stato sicuramente sfortunato, il suo mandato è iniziato con la caduta delle torri gemelle, dopo si è passati alle due guerre al terrorismo, dopo l'uragano katrina, la crisi dei subprime e la crisi mondiale dell' economia. Sicuramente, quindi, non ha avuto la fortuna necessaria per poter gestire al meglio il suo paese. Ottima è stata la gestione dell' opinione pubblica dopo l' undici settembre. Pessima invece è stata la gestione delle due guerre, che ha diviso l'opinione pubblica mondiale, ma non i suoi connazionali, che si sono schierati dalla sua parte, nonostante i motivi che avevano mosso le azioni militari si erano rilevati ingiustificati. Fallisce la caccia, se così si può definire, a Osama Bin Laden. Forti ritardi, a lui attribbuiti, nelle operazioni post-uragano Katrina. Misure post-crisi economica difficili da giudicare, in quanto è il primo presidente americano dopo il new deal ad aver optato per la statalizzazione delle banche, tramite corposi aiuti di stato. E' stata sicuramente una decisione difficile da prendere, attualmente difficile da giudicare in quanto siamo in piena crisi e la soluzione sembra alquanto lontana. Insomma, ha intervallato momenti di lucidità incredibile a momenti che giudicare imbarazzanti è poco. Certamente è stato, al pari di suo padre, uno dei presidenti più criticati della storia americana. Misterioso nei suoi affari, nelle sue amicizie, in alcune sue uscite, ma sicuramente chiare e proverbili le sue battute fuori luogo. Infine, non penso che sia il momento per definirlo in poche parole, ma sicuramente queste sono state le sue azioni, sbagliate o no. Ora tocca ad Obama...
lunedì 19 gennaio 2009
Kakà resta al Milan e siam tutti felici
Vorrei solo dire che nella giornata di ieri, sono stati presentati i nuovi dati sull'economia europea. La situazione è drammatica, la disoccupazone sale, la crescita è negativa(recessione) e per quanto riguarda l'Italia, il rapporto deficit/PIL è salito al 3,8%. Senza commentare più di tanto i dati, vorrei solo dire che il Presidente del Consiglio, ha passato la giornata di ieri nella sede di Via Turati per l'affare Kakà. L'economia va a rotoli, badate bene non ho detto che sia colpa sua, ma almeno Kakà resta. Vai Ricky!
La BBVA VUOLE UN UNICO REGOLATORE
Francisco Gonzalez, presidente della spagnola BBVA, ha invitato a lavorare insieme per un unico regolatore europeo, che regolamenti i rischi bancari e l' avidità dei dirigenti, perchè anch'essi si concentrino non sui benefits di breve periodo, ma sulla crescita e il successo delle loro società nel lungo termine. In una video intervista su ft.com, il Presidente Gonzalez - la cui banca è appena diventata una delle prime 10 per capitalizzazione - ha detto che essendo di fronte a banche multinazionali e a mercati globali, anche il regolatore deve essere unico e mondiale. Una volta ciò sarebbe stato impensabile. "Alla fine se si vuole avere un unico mercato europeo, c'è bisogno di un unico supervisore, un unico legislatore, che deve essere molto vicino alla BCE o addirittura parte di essa" ha detto.
I recenti fallimenti bancari in entrambe le coste dell'atlantico e gli alti costi per il salvataggio statale, hanno aperto un importante dibattito sulla regolamentazione dei mercati finanziari.
Alistair Darling, cancelliere dell' Erario britannico, sta cercando di utilizzare il G20 come promotore e organizzatore di una politica unitaria nella regolamentazione dei mercati. Sta lavorando per una grande coordinazione contro quelle banche che utilizzano modelli di business che creano enormi rischi sistemici. Non tutti i banchieri concordano con Gonzalez, riguardo il passaggio da un regolatore nazionale a uno unico e internazionale, ma qualcuno è d'accordo sul bisogno di una maggiore coordinazione tra i vari legislatori nazionali e ammirano il sistema di controllo spagnolo che ha salvato molte banche dai peggiori effetti della crisi. "La banca di Spagna è un modello da seguire" afferma Gonzalez. Ha aggiunto che sono due le cause alla base di questa crisi: la poca regolamentazione, e "l' avidità di banchieri e non, che hanno dimenticato alcuni tra i principi fondamentali su cui si reggi un istituto bancario come l'etica e la prudenza nelle scelte".
Conclude, dicendo che lo scandalo Madoff è l' esempio perfetto che prova la mancanza di una corretta regolamentazione. Infine è giusto ricordare che la BBVA ha perso 300 milioni di euro per colpa di Madoff, ma anche che non ha mai avuto rapporti diretti con quest'ultimo.
TRADUZIONE DI UN ARTICOLO DEL FINANCIAL TIMES DEL 19/01/2009
sabato 17 gennaio 2009
Uno sguardo d'insieme sulla classificazione alberghiera in Europa
Allo stato attuale siamo molto lontani dall’omogeneizzazione dei vari sistemi d’attribuzione del rating. Ci sono paesi, come l’Italia e la Spagna, che demandano alle regioni il compito di legiferare in materia turistica (decentramento legislativo), e ciò non sempre ha conseguenze positive, infatti, vi è una sostanziale differenza tra le due realtà: in Italia ogni regione ha adottato dei sistemi diversi che rendono molto frammentata la metodologia di classificazione, in Spagna, invece, le varie autonomie regionali hanno adottato dei sistemi di attribuzione del rating molto simili.
Ci sono, poi, paesi come Francia e Portogallo che hanno optato per un sistema di classificazione centrale, paesi che hanno affidato ad enti misti questo compito come il Regno Unito e altri che, come Svezia e Danimarca, condividono lo stesso sistema . Particolare è il caso della Finlandia che non prevede alcun sistema di classificazione. Andando nel particolare questa è la situazione nei più importanti paesi europei.
3. Spagna
Secondo il Regio decreto 1634/83 sono le autorità regionali che hanno il compito di regolamentare la classificazione alberghiera. Lo stesso decreto, tuttavia, stabilisce dei criteri minimi e alcune disposizioni a cui le strutture alberghiere devono sottostare, come per esempio i sistemi di sicurezza, l’obbligo di esporre i prezzi massimi del servizio e quelli dei servizi extra. Nonostante la classificazione alberghiera sia decentralizzata, questo non compromette l’omogeneità dei sistemi di attribuzione delle “stelle”, poiché le varie regioni hanno adottato dei criteri di assegnazione molto simili. E’ inoltre previsto un sistema di controllo, svolto da ispettori istituiti da ogni Governo Autonomo.
4. Portogallo
Dispone dal 1954, di un sistema di classificazione creato dalla Segreteria Statale del Turismo in collaborazione con la Giunta Direttiva del Turismo, entrambe operanti all’interno del Ministero dell’Economia. L’attuale sistema è regolato dalla legge n. 167/97, che dispone le linee guida della valutazione della qualità per l’assegnazione della qualifica. La normativa è erogata dagli enti statali sopra citati; è previsto, inoltre, un piano di controlli annuale che avvengono previo appuntamento. Il sistema appare molto semplice ma efficace; è, infatti, prevista una griglia dettagliata di requisiti riferibili a ogni categoria.
5. Regno Unito
Come in Spagna e in Italia, anche nel Regno Unito si è scelto, inizialmente, un sistema regionale della classificazione alberghiera. Solo due anni fa fu adottato un sistema di controllo comune, il “National Standards of the quality Assurance”, favorito dal governo nazionale con la partecipazione dei Tourist Board delle varie regioni. Il sistema si basa su una stringente valutazione oggettiva e analitica in base ad una moltitudine di parametri. Alla base di questo processo vi è il cliente, perché, in modo indiretto, è colui che ha dettato i parametri, i quali sono a loro volta atti a garantire una più grande correlazione tra “stella” e qualità effettiva.
6. Danimarca
Nel 1997, partendo da uno studio di mercato realizzato per conoscere le necessità dei consumatori danesi, si arrivò alla nascita del sistema di classificazione nazionale, creato dall’“Horesta”(Associazione danese degli hotel, ristoranti e industria del turismo), mandataria dell’analisi di mercato, e da tre rappresentanti del Ministero del turismo. Quindi la principale necessità, che lo stato danese e gli imprenditori turistici hanno voluto soddisfare, è stata la difesa degli interessi del consumatore e non l’accrescimento della qualità delle strutture ricettive
Tentativi di una politica unitaria nella classificazione alberghiera in Europa
Constatato che in Europa non esiste un sistema di classificazione alberghiera unitario e che, quindi, ogni paese adotta delle modalità diverse, non resta che dare uno sguardo a come mai si è arrivati a questa situazione.
Il più importante tentativo d’omogeneizzare i vari sistemi, proposto nel 1982, fu accolto negativamente dall’Hotrec (Confederazione degli Hotel, Ristoranti e Caffè), poiché secondo quest’ente, non vi erano i presupposti di uno sviluppo coordinato dell’offerta alberghiera esistente. Nel 1989, un rapporto del WTO diede avvio al processo di standardizzazione dei simboli e dei segnali di classificazione alberghiera, questo si è confermato un ottimo metodo per garantire ai consumatori una maggiore chiarezza. Importante anche la realizzazione da parte di ISO del programma ISO 9000, che ha creato il presupposto dell’ adozione da parte degli alberghi europei di standard qualitativi internazionali. L’ISO 9000 garantisce, infatti, al cliente-turista la corrispondenza tra servizio promesso e quello effettivo. Probabilmente questo è il migliore strumento per una maggiore uniformità della classificazione alberghiera internazionale, che vuol dire principalmente maggiore trasparenza a vantaggio del consumatore. ISO sta riuscendo dove UE, Stati ed unioni di categoria hanno fallito.
Tuttavia sono ancora poche le strutture che si sono dotate di tale certificazione e, nonostante abbiano tutte conseguito un importante vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti, ciò, è dovuto al fatto che tale procedura necessita ingenti investimenti, i quali, spesso, i piccoli alberghi non riescono a sostenere. I cospicui investimenti sono giustificati dalla necessità di ristrutturazione dello stabile, al rifacimento dell’impiantistica, alla creazione di più avanzati e costosi sistemi di sicurezza e dalle uscite derivanti dai costi di formazione del personale, ecc.
venerdì 16 gennaio 2009
ROMA AFFOGA PER I MONDIALI DI NUOTO
Marco Lillo per "L'espresso"
Sprizza ottimismo ed efficienza il sito Internet ufficiale del Comitato organizzatore dei Mondiali di nuoto Roma 2009. A sei mesi dall'avvio della kermesse si possono già prenotare biglietti e abbonamenti. Il 18 luglio, per sedici giorni Roma sarà invasa da 2 mila e 500 atleti che si sfideranno sotto i colori di 170 nazioni e con un semplice click si può prenotare sin d'ora un posto al sole per ammirare il Settebello della pallanuoto o le sirenette del sincronizzato.
Giovanni Malago - Copyright PizziSe i lavori continuano con questi ritmi però sarebbe meglio, prima di procedere all'acquisto, munirsi di una seggiolina e magari di una piscina gonfiabile. Lo stadio del nuoto che dovrebbe ospitare queste gare a oggi non esiste. Lunedì 12 gennaio 'L'espresso' è entrato nel cantiere del futuribile impianto che dovrebbe rappresentare il biglietto da visita dell'Italia sportiva e ha visto una scena che ricorda Ground Zero.
Accanto alle vecchie piscine del Coni, appena rinfrescate (ma ancora da completare) non c'è traccia dei nuovi impianti che dovrebbero sorgere al posto del glorioso stadio Centrale. Il palazzo del Foro Italico rappresentava già un ripiego rispetto all'idea iniziale dell'allora sindaco Walter Veltroni di edificare una città dello sport nel campus di Tor Vergata.
Non avremo né l'una né l'altro. Niente torre avveniristica disegnata dall'architetto catalano Calatrava con quattro piscine, foresterie e palestre disseminate nei 38 ettari di verde a Tor Vergata. E niente palazzo trasparente a due passi dal Tevere per ospitare 15 mila spettatori all'ombra di Monte Mario.
L'immagine che Italia 2009 consegna al mondo è quella di un paese fermo al 1960. Quarantanove anni dopo le Olimpiadi, i nuotatori troveranno gli stessi impianti appena ammodernati. L'unica opera nuova, lo stadio del Foro, alla data odierna è una distesa spettrale che ospita una cava di cemento e un po' di ferraglia. Non c'è nemmeno un progetto definito, tanto che sul cartellone previsto per legge, il rendering dello stadio è stato cancellato da una provvidenziale macchia bianca come il disegno di gesso di un bambino sulla lavagna.
Gianni AlemannoNonostante i 22 milioni di appalto assegnati per l'impianto, nonostante i quattrocento milioni di euro stanziati per tutte le opere mondiali, nonostante le straordinarie corsie preferenziali, le deroghe urbanistiche, il Commissario speciale dei Mondiali del nuoto, l'Italia non è riuscita a rispettare le promesse. Il presidente del comitato organizzatore Giovanni Malagò si dice fiducioso sul risultato finale ma spiega: la costruzione delle opere non è di mia competenza.
Che sia colpa del governo che ha bloccato i fondi per Tor Vergata, colpa dell'università che non se l'è sentita di stipulare un mutuo da 60 milioni per un impianto enorme, colpa del sindaco Gianni Alemanno che ha cambiato il progetto del Foro o colpa del suo predecessore Veltroni che ha disegnato un piano troppo pesante, una cosa è certa: la montagna ha partorito un topolino. A parte le piscine smontabili del Foro Italico (che comunque non sono una stranezza, si fa da anni in tutto il mondo), rimane la delusione per le poche strutture pubbliche che resteranno alla città.
Attualmente sono in costruzione, e dovrebbero essere terminate per giugno, le piscine di tre poli natatori (che non saranno usati per le gare mondiali ma solo per gli allenamenti). Quello di Pietralata, quello di Valco San Paolo, sul Lungotevere, e quello di Ostia, oggetto di mille polemiche per la sua localizzazione. Sorgerà infatti di fronte allo stabilimento dell'uomo forte degli stabilimenti balneari laziali, Renato Papagni. L'ingegnere delle spiagge è vittima di un piccolo conflitto di interessi: è autore del progetto preliminare del polo prospicente il suo bagno, Le dune e, secondo i comitati di quartiere contrari all'opera, potrebbe trarre un beneficio dall'operatività dell'impianto.
Il paese che arriva all'appuntamento con il Mondiale è la solita Italia arruffona che privilegia il privato. Al posto dei grandi impianti pubblici degni di una capitale moderna, è arrivata una pioggia di piccoli impianti, pagati dalle società sportive con finanziamenti agevolati del credito sportivo, ma autorizzati in deroga a ogni norma urbanistica. A brindare sono soprattutto i cinque proprietari dei circoli adagiati sul Tevere o immersi nei parchi romani che, con la scusa di garantire piscine olimpioniche per l'allenamento degli atleti, hanno ottenuto cubature sterminate su zone vincolate.
Gianni PetrucciTra questi brinda doppiamente il presidente del Comitato organizzatore dei Mondiali di nuoto del 2009, Giovanni Malagò, che è riuscito a ottenere per il Canottieri Aniene, del quale è presidente, un doppio vantaggio. Il Comune ha assegnato al circolo più blasonato e ricco della capitale l'area del vecchio Palaparioli in concessione gratuita per 99 anni. E il Commissario gli permette di costruire in deroga alle norme ordinarie, come per gli altri circoli che si impegnano poi a concedere gli impianti per 15 anni in uso, in alcune ore del giorno, alle associazioni sportive e alle scuole.
Un'occasione unica che il circolo di Malagò sta sfruttando alla grande, costruendo una struttura gigantesca e splendida con tre piscine, ludoteca, palestra, caffetteria e foresterie per 26 alloggi. Un enorme circolo bis, tra il Tevere e i Parioli, "nel quale abbiamo investito molti milioni di euro nostri, a beneficio della collettività", spiega Malagò. Anche se non si tratta di mecenatismo, visto che l'impianto è in grado di ripagarsi da solo, se ben sfruttato.
Ma i vincitori del Mondiale prima ancora del suo inizio sono quelle imprese di costruzioni che hanno fatto una sbornia di appalti milionari assegnati con gare snelle e in somma urgenza. Tra i vincitori spiccano imprenditori che si autodefiniscono 'ladri' e gruppi che fanno affari insieme ai familiari dei loro controllori. Vediamo chi sono, a partire dal cantiere più importante dei Mondiali: il 'Ground Zero' del Foro Italico. Il bando di gara da 23 milioni (che aumenteranno fino a 30 per le varianti) è stato affidato a un consorzio composto dalla Imac di Pierfrancesco Murino e dalla Tecno-cos di Daniele Anemone.
La famiglia Anemone è l'asso pigliatutto degli appalti speciali della Protezione civile. Forte alla Maddalena per i lavori del G8, se la cava bene anche a Roma nel nuoto. Scorrendo le gare in ordine di importo, vediamo che anche il secondo bando per dimensioni, quello da 20 milioni di euro del museo dello sport di Tor Vergata, è finito a un'associazione di imprese guidata da un'azienda vicina agli Anemone: la Igit di Bruno Ciolfi, che proprio in associazione con Anemone sta costruendo il carcere di Sassari, un'opera segretata da 58 milioni.
Gli appalti dei Mondiali sono stati assegnati, previa gara, quando a guidare la struttura c'era il Commissario Angelo Balducci, oggi sostituito da Claudio Rinaldi, ma tutt'ora incaricato del raccordo tra Palazzo Chigi e il Commissario. 'L'espresso' si è già occupato (vedi il n. 52 del 30 dicembre 2008) degli incroci di interessi tra le famiglie del controllore Balducci e del controllato Anemone. Altri ne sono emersi nelle vicende legate al Mondiale del nuoto (vedi articolo qui sotto). Nonostante tutto, però, Rinaldi difende a spada tratta il suo predecessore: "Non mi interessano i rapporti tra Anemone e Balducci. Io so che ha fatto un ottimo lavoro. Per lui parlano i risultati".
Quanto al Foro Italico, Rinaldi precisa: "Io tratto con Murino, non con Anemone. E sono convinto che i tempi saranno rispettati. L'impresa consegnerà un primo stralcio dei lavori in tempo per i Mondiali. Ci saranno tribune fisse per tremila posti ai quali si aggiungeranno altri 4 mila e 500 posti smontabili. Poi, dopo i Mondiali, termineremo lo stadio, che sarà più leggero rispetto al disegno originale, in accordo con le indicazioni del Comune di Roma".
Continuando a scorrere la lista degli appalti assegnati dal Commissario (complessivamente 100 milioni), il terzo bando per dimensioni è quello da 10 milioni di euro per il polo natatorio di Pietralata, vinto da una vecchia conoscenza delle procure: la Cogei di Roberto Petrassi. Petrassi è attualmente sotto processo per corruzione a Roma. Sembrava uscito dal giro e ora a rilanciarlo alla grande ci pensa la presidenza del Consiglio.
Nelle intercettazioni di quell'indagine, avviata dal pm Henry John Woodcock e poi trasferita a Roma, Petrassi spiegava così la sua filosofia: "O ti chiami ladro o ti chiami poveraccio, sono due le cose. Noi abbiamo una forma di rubare che è autorizzata sotto certi casi e quegli altri invece sono ladri perché rubano le mele al mercato e vanno in galera". Il presidente della Cogei proseguiva: "A noi è più difficile che ci mettano in galera, infatti io ho attraversato tutta mani pulite, mani prepulite. le ho passate tutte, sono stato il più grosso gruppo di Roma e in galera non ci sono andato, né sono stato incriminato, perché le cose sono abituato a farle bene". Se ne sentiva la mancanza nel post-mani pulite.
A fine 2007, l'Ati, composta dalla Cogei di Petrassi e dalla Eschilo 1 di Rigoberto Caramanica (il suo braccio destro che, per il pm Woodcock, era il suo prestanome), ha vinto il bando da dieci milioni di euro per Pietralata. Non basta. Un'altra società sportiva di Caramanica, la Eschilo fitness, riferibile a Petrassi secondo gli investigatori, ha partecipato all'altro grande affare dei Mondiali di nuoto: le varianti urbanistiche.
Sono ventidue i circoli sportivi privati che hanno ottenuto l'autorizzazione a costruire in deroga alle norme urbanistiche edifici di servizio alle nuove piscine. Ci sono casi estremi come quello del circolo Tevere Remo, che ha avuto il via libera per una piscina in cemento armato a ridosso del Tevere, che è stata sommersa dalla piena del dicembre scorso.
Se in futuro il problema si dovesse riproporre, rassicurano all'ufficio del Commissario, il deflusso del fiume non sarebbe ostacolato perché "le vetrate della piscina si sbricioleranno all'istante". Anche il centro sportivo Eschilo ha approfittato della deroga costruendo una struttura di 20 mila metri cubi. Mentre, secondo il comitato Axa sicura, nella lottizzazione originaria approvata nel 2000 ne spettavano soltanto 6.500.
Quando gli si fa notare il curriculum di Petrassi, Rinaldi alza le spalle e replica: "Lo conosco da tanti anni come imprenditore del settore ma a me risulta che il rappresentante della società sia Rigoberto Caramanica. Comunque la Cogei ha vinto una gara. E io faccio il Commissario del governo, non il commissario di polizia".
giovedì 15 gennaio 2009
CREDITO FAMILIARE
A fine novembre il governo ha presentato due nuovi strumenti di sostegno ai redditi delle famiglie: la social card e un bonus una tantum di importo variabile. Considerando l'inconsistenza delle politiche anti-povertà delle due passate legislature, si spera che queste misure costituiscano il primo passo sperimentale di un percorso di riforma del welfare. Restano però provvedimenti che per l'esiguità dell'importo e per l imprecisione del disegno tecnico, rifletterono più il desiderio di cogliere un successo di immagine che l'intenzione di alleviare significativamente le condizioni dei poveri.
IL SOSTEGNO DEI REDDITI FAMILIARI PIÙ BASSI NEL PACCHETTO ANTI-CRISI
Il governo ha presentato nell’ultima settimana di novembre due nuovistrumenti di sostegno ai redditi delle famiglie:
- una carta acquisti mensile per le famiglie in povertà estrema (social card) (1)
- un assegno una tantum, di importo variabile fra i 200 e i mille euro, per le famiglie a basso reddito di lavoratori dipendenti e pensionati (bonus famiglie) (2)
Non è facile dare una valutazione sintetica delle due misure dal punto di vista delle politiche redistributive, soprattutto perché ilbonus, il più consistente dei due, ha un carattere ibrido. Presentato come misura anti-crisi temporanea e non ripetibile, potrebbe ciononostante costituire, per le sue caratteristiche, un esperimento suscettibile di ulteriori sviluppi, nell’ambito di un nuovo approccio alla politica della famiglia e alla riforma del Welfare. Considerando il lungo e accidentato percorso di introduzione del Minimo Vitale in Italia, e in particolare le inesistenti o inconsistenti iniziative anti-povertà delle due legislature precedenti, si tratta di un (piccolo) passo nella giusta direzione. Lasocial cardè, palesemente, una integrazione della carità privata per soggetti e famiglie a bassissimo reddito, non inutile in sé. Rispetto al bonus, è apprezzabile la ricorrenza mensile, non una tantum, dell’erogazione. La social card presenta tuttavia, sotto il profilo della scelta dei beneficiari, alcuni vistosi difetti: in primis, l’esclusione delle famiglie degli stranieri regolarmente registrati in anagrafe (il bonus, correttamente, è invece destinato a tutti i residenti).
Mentre molti osservatori criticano in questi giorni l’esiguità degli importi dei due benefici (totali e per le singole famiglie destinatarie), questo articolo entra nel merito del disegno dei due provvedimenti, avanzando nella parte finale un’ipotesi di lavoro (Credito Familiare) per una eventuale auspicabile estensione futura, su base ricorrente, del sostegno alle famiglie con redditi bassi(3).
SOCIAL CARD: PERCHÉ ESCLUDE GLI STRANIERI E I BAMBINI DI QUATTRO ANNI?
Per l’esiguità dell’importo (40 euro al mese) e la imprecisione del disegno tecnico, la social card sembra riflettere più il desiderio di cogliere un facile successo di immagine sul governo precedente che l’intenzione di alleviare significativamente le condizioni dei poveri. La social card ha infatti un importo triplo rispetto al ‘bonus incapienti’ del passato governo. Si tratta tuttavia soltanto di un euro e 33 centesimi al giorno contro i circa 42 centesimi del‘bonus incapienti’. Per le famiglie senza reddito, in tutti e due i casi si tratta di una cifra modesta rispetto ai bisogni minimi essenziali.
Nonostante questo, non è ovvio che si tratti di uno strumento inutile. Realisticamente, la sua vera efficacia andrà valutata, con un attento monitoraggio del suo impiego, soprattutto in relazione ai possibili rapporti di integrazione/sostituzione con la carità privata, che rischia di contrarsi durante i periodi di recessione. Sarà bene monitorare con attenzione anche possibili effetti di “spiazzamento”, anche se a priori non sembra molto probabile, dato l’importo minimo, che la social card abbia effetti di disincentivo sulla carità privata.
Un grosso difetto della social card è la platea di beneficiari moltoristrettae selezionata in modo arbitrario e categoriale. Le famiglie povere che non hanno in casa almeno un bambino con meno di tre anni non avranno nulla. Altrettanto ingiustificabile, sul piano etico, l’esclusione degli stranieri poveri anche se regolarmente iscritti all’anagrafe. Si tratta oltretutto di famiglie relativamente più esposte agli effetti della crisi. Infine, l’importo della social card tiene conto solo imperfettamente dei diversi bisogni delle famiglie, generando problemi di equitàverticale e orizzontale. Per esempio, a parità di reddito una famiglia con due gemelli di un anno di età avrà un importo doppio rispetto ad un’altra con un figlio di un anno e uno di quattro. La soglia di reddito, almeno, tiene correttamente conto della composizione del nucleo familiare, poiché è misurata in base al reddito equivalente ISEE (4).
Anche l’azzeramento “improvviso” al di sopra della soglia di reddito, oppure al venir meno dei requisiti, è un difetto vistoso: per le famiglie povere, il terzo compleanno del figlio più piccolo sarà un giorno da dimenticare. Lo stesso avviene se un adulto della famiglia ottiene un reddito temporaneo di scarso importo.
IL BONUS: ASSEGNO UNA TANTUM O PROVA GENERALE DEL MINIMO VITALE?
La selezione dei beneficiari del bonus è più razionale rispetto a quanto previsto dalla social card. Destinata a famiglie che possiedono esclusivamente redditi da lavoro dipendente e da pensione (compresi quelli ‘assimilati’ dei lavoratori autonomi parasubordinati), non discrimina l’accesso a discutibili criteri anagrafici, come l’età dei minori, e include, come si è detto, gli stranieri residenti. Tuttavia, il testo del decreto sembra escludere i single che non sono titolari di reddito da pensione. Se questa interpretazione è corretta, si tratta di una discriminazione di cui non sono chiare le motivazioni.
Gli importi del bonus variano fra le diverse tipologie familiari in modo grosso modo coerente con la linea di povertà ufficiale per il 2007, con una copertura leggermente inferiore al 3% per tutte le famiglie con meno di sei persone e del 4% circa per quelle di sei componenti (5). Lesoglie di reddito, tuttavia, utilizzano una scala di equivalenza arbitraria, diversa da quella dell’ISEE e abbastanza imprecisa: non vi è differenza nel passaggio da due a tre componenti e in quello da quattro a cinque. Così, da un lato il beneficio raggiunge anche persone “quasi povere”, leggermente al di sopra della linea di povertà, che vivono in famiglie con meno di quattro componenti (ed è un bene che sia così), dall’altro esclude incoerentemente una parte delle famiglie povere di cinque o più persone.
Nonostante queste imprecisioni e l’importo molto contenuto, con il bonus viene finalmente introdotto su scala nazionale, anche se per un solo mese, uno strumento specifico ed universale di sostegno alla povertà. In pratica, è un possibile prototipo del Minimo Vitale, che attualmente è in vigore soltanto in alcune realtà locali, con differenti criteri di selezione dei beneficiari e modulazione dei benefici condizionata dalle risorse finanziarie disponibili (6). Inoltre, l’impianto del bonus accoglie in linea di principio la necessità di alleggerire il carico fiscale per le famiglie di lavoratori dipendenti e pensionati a basso reddito, iniziando a correggere una delle più evidenti anomalie del sistema tributario italiano. Per questi motivi, si tratta di una novità importante, che raccoglie i suggerimenti formulati dal dibattito nel corso degli ultimi anni.
IL COSTO DEL (MANCATO) SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE
Naturalmente, l’estensione del bonus sull’intera durata dell’anno appare molto costosa, soprattutto a paragone delle somme irrisorie destinate al contrasto della povertà nelle due legislature precedenti (6). La spesa appare ancor più costosa, persino sconsiderata, alla luce delle note condizioni della finanza pubblica. Si tratta tuttavia di una prudenza finanziaria solo apparente, perché trascura i costi che la disuguaglianza e la povertà non contrastate provocano nel tempo, in termini di mancata crescita (7). La stabilità dei tassi di povertà relativa a fronte di un consistente aumento dell’occupazione, in associazione ad una crescita insufficiente dell’output, fanno sospettare che la distribuzione disarmonica del carico tributario e, soprattutto, il mancato sostegno dei redditi più bassi costituiscano da tempo un serio ostacolo alla crescita dell’economia italiana. Anche per quanto riguarda il necessario riassetto del welfare (auspicato dal dibattito e mai compiutamente realizzato), è chiara la convenienza di progettare per il futuro una trasformazione del bonus e della social card (correggendone i difetti) in uno strumento permanente e regolare di sostegno dei poveri e di redistribuzione del reddito. Oltretutto, si tratterebbe per molti versi di un’applicazione, limitata ai redditi bassi e medio-bassi, del principio della tassazione familiare dei redditi.
Un disegno flessibile del Minimo Vitale, d’altra parte, consentirebbe una sua implementazione graduale e progressiva, rendendo sufficientemente governabile il processo di transizione a regime. Anlalizziamo alcuni aspetti matematici del Minimo Vitale, per illustrarne sia le caratteristiche desiderabili, sia l’estrema flessibilità.
UN’IPOTESI DI CREDITO FAMILIARE
Una possibile implementazione del Minimo Vitale è l’attribuzione alle famiglie di un credito d’imposta rimborsabile, cioè di un’imposta negativa sui redditi familiari. Nella formula seguente il beneficio è calcolato come differenza fra una soglia di reddito prestabilito M ed il reddito familiare Y, tutt’e due “modulati” dai parametri a,k eb:
Credito Familiare = akM – bY
Il policymaker sceglie la soglia M,che indica l’importo massimo del beneficio per una famiglia di un solo componente. Tale importo sarà differenziato per famiglie di diversa numerosità e composizione in base ad una scala di equivalenza (nella formula: il valore del parametrok). Il parametro a, generalmente pari a uno, può essere aumentato per famiglie in particolari gravi condizioni di disagio, delle quali non si riesce a tener conto nelle scale di equivalenza (per esempio, persone disabili). Il parametro b, inferiore ad uno, viene scelto in modo da graduare la riduzione del beneficio all’aumentare del reddito, attenuando gli effetti di disincentivo al lavoro.
Per fare un esempio concreto, utilizzando la scala di equivalenza OECD modificata (1 per il primo adulto, 0.5 per ogni altro adulto, 0.3 per ogni minore di 14 anni) il policymaker potrebbe scegliere i seguenti parametri: M=6,000; a=1; b=0.6. Con questa configurazione, per un single si avrà il seguente schema di benefici:
Mentre, per una famiglia di due adulti con un figlio minore, si avrà:
Per ulteriori esempi, si può utilizzare il foglio di Microsoft Excel allegato.
(*) L’articolo riflette opinioni personali e non coinvolge la responsabilità dell’Istat
(1) Per i dettagli, vedere le pagine dedicate alla social card sul sito del Ministero dell’Economia (il presente articolo si basa su informazioni presenti sul sito il 28 novembre 2008) e l’articolo 81 del decreto legge 25 giugno 2008.
(2) Il bonus famiglie è descritto nell’articolo 1 del decreto legge 28 novembre 2008.
(3) Sugli effetti redistributivi e di bilancio dei due provvedimenti cfr. su lavoce.info i contributi di Boeri, Baldini e Pellegrino e Monti.
(4) Cfr. la pagina web dell’INPS dedicata al calcolo dell’ISEE.
(5) Per la linea di povertà 2007 cfr. Istat (2008), pag. 10.
(6) Per una rassegna, seppure non molto aggiornata, delle misure di natura assistenziali applicate in Italia si rimanda a S. Spirito 2003, Collana Documenti Istat, n.3, anno 2003, Roma.
(7) Sulla rimozione di fatto della povertà dall’agenda politica, cfr. Saraceno (2007)
(8) Gli effetti positivi dell’eguaglianza in termini di crescita economica sono ormai ben noti agli studiosi, cfr. Eicher, T. S and S. J. Turnovsky (eds. 2003), “Inequality and Growth”, MIT Press, Boston (in particolare il contributo di Bourguignon, F., “The Growth Elasticity of Poverty Reduction: Explaining Heterogeneity across Countries and Time Periods”).
Investimento o Azzardo?
Buonasera a tutti, stasera parlerò della nostra ultima idea: la Parimai Investments. Dal punto di vista legale, non è nient’altro che un accordo tra amici che condividono un pò di risparmi e un conto titoli per investire. Si tratta di poche migliaia di euro. Qualcuno ci ha subito attaccato dicendo che non è il periodo adatto per prendere posizione sul mercato. Bhè allora quando sarebbe un periodo giusto? Quando il mercato è stabile e le azioni sono quotate con prezzi più o meno veritieri? Noi pensiamo di no. Abbiamo deciso di investire in un ETF, SGAM ETF LEVERAGED S&P/MIB (ISIN: FR0010446658), che da una parte sfrutta la diversificazione, vista la quotazione basata sui prezzi di tutto il mercato azionario italiano, dall’altra sfrutterebbe un eventuale salita dei prezzi con una leva al 200%. Si è vero la posizione parla chiaro: crediamo in una ripresa generale dell’economia reale che si espanderà subito al mondo delle borse.wall street Prezzi molto bassi anche per i bancari, ma visto il rischio del sistema è meglio starne alla larga per il momento, il rischio di un fallimento di una qualsiasi banca potrebbe far crollare ulteriormente i prezzi delle quotazioni. Altra azienda a nostro avviso mal quotata è Fiat, poichè è vero che il mercato automobilistico, essendo perfettamente correlato all’andamento dell’economia, è in profonda crisi, ma la società sembra forte e in salute. Un unica cosa fa davvero paura nel parlare di Fiat: Uscirà dalla crisi? e se si come?. Interessante anche puntare sull’azionario dei paesi emergenti, come Brasile, India o Cina, ma vi sono alcuni problemi, è difficile capire a quale reali rischi va a legarsi l’investimento e poi non vi sono esatte informazioni sul sistema di credito del paese. Viste queste analisi, pensiamo e speriamo che il nostro investimento produrrà qualcosa, ma sopratuto, visto che puntiamo sulla ripresa dell’economia, speriamo che le cose tornino al loro posto. Aspetto vostri commenti. Buona lettura
mercoledì 7 gennaio 2009
Dov'è la parità tra uomini e donne?
di Chiara Saraceno, tratto da www.lavoce.info
Un’età della pensione più bassa penalizza le donne, ha sentenziato la Corte Europea. Ma eliminare questa disparità non basta. Bisognerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini e pagano prezzi economici elevati. Su questo occorre intervenire.
E’ vero che, come ha sostenuto la Corte Europea nel condannare l’Italia, una età della pensione più bassa penalizza le donne, date le loro carriere mediamente più corte e remunerazioni più basse rispetto agli uomini. Limitarsi a equiparare le età alla pensione di donne e uomini per consentire alle prime di recuperare almeno in parte il gap contributivo con i loro colleghi maschi, come propone il ministro Brunetta, senza modificare contestualmente le condizioni che ne sono all’origine, rischia tuttavia di aggiungere ingiustizia a ingiustizia, disuguaglianza a disuguaglianza.
IL LAVORO IN FAMIGLIA
Le donne, infatti, svolgono la stragrande maggioranza del lavoro domestico e di cura necessario per far funzionare una famiglia e per consentire agli stessi lavoratori di presentarsi ogni giorno al lavoro (remunerato). Viceversa gli uomini sono molto più presenti nel lavoro remunerato (e quindi coperto da contributi a fini pensionistici).E’ una differenza visibile in tutte le età e condizioni famigliari, come mostra l’indagine ISTAT 2002 sull’uso del tempo (1). Soltanto tra chi vive solo si attenua, mentre viceversa si accentua tra chi vive in coppia ed ha figli. In particolare, le donne occupate che vivono in coppia con figli lavorano per il mercato in media due ore in meno degli uomini in analoga condizione famigliare. Ma se al lavoro per il mercato si somma il lavoro domestico e di cura svolto per la famiglia (inclusi i mariti), il gap si rovescia: le donne hanno una giornata lavorativa media più lunga di un’ora e quaranta minuti. Quindi le donne occupate con carichi famigliari lavorano complessivamente in media molto più degli uomini occupati, ma guadagnano di meno ed accumulano una ricchezza pensionistica inferiore, anche se ne possono fruire mediamente per un periodo più lungo.
Si aggiunga che anche a motivo di queste loro responsabilità famigliari – effettive o anche solo presunte – le donne non solo sono meno presenti nel mercato del lavoro, ma sono più esposte alla disoccupazione e sono più concentrate degli uomini nei rapporti di lavoro a termine. Infine, molto spesso quando si ritirano dal mercato del lavoro le donne continuano a fornire più o meno intensamente lavoro di cura non solo ai mariti, ma ai nipoti e ai genitori e suoceri resi dipendenti dalla età molto avanzata, in una società come la nostra in cui mancano i servizi sia per la primissima infanzia che per la dipendenza in età anziana. Da strumento di conciliazione tra lavoro remunerato e famiglia per i loro mariti, andando in pensione (e talvolta anche prima) le donne si trasformano in strumento di conciliazione per le loro figlie e nuore, oltre che in prestatrici di cura per chi nella rete famigliare non è del tutto autosufficiente.
IN PENSIONE A CHE ETÀ?
Ma la soluzione non è il mantenimento di una diversa età pensionabile. Non basta tuttavia neppure, anche se è auspicabile, reintrodurre la flessibilità – per donne e uomini –nella età di uscita dal mercato del lavoro così come era previsto dalla riforma Dini, per consentire a ciascuno di scegliere il trade off che preferisce, o che è più adeguato alle sue necessità, tra uso del tempo e livello della pensione. Occorre soprattutto incidere sulle condizioni che, appunto, producono il gap reddituale e contributivo tra donne e uomini. In primo luogo occorre lavorare seriamente per eliminare le discriminazioni di genere che ancora esistono nel mercato del lavoro ad ogni livello – dall’accesso, alle forme contrattuali, alle possibilità di carriera. In secondo luogo vanno rafforzate le politiche di conciliazione, per donne e uomini: servizi di cura per la prima infanzia e per le persone non autosufficienti, tempi scolastici che tengano conto del fatto che oramai nella maggioranza delle famiglie entrambi i genitori – o l’unico genitore presente – sono occupati. Da questo punto di vista, la riforma Gelmini che riporta l’orario nella scuola elementare privilegiato a 24 ore è una vera e propria mossa in contrasto con questo obiettivo (si veda anche questo altro intervento).
CONTRIBUTI FIGURATIVI
Infine occorre un riconoscimento economico del lavoro di cura, sia sotto forma di congedi coperti da indennità decenti che sotto forma di contributi figurativi più sostanziosi di quelli attualmente vigenti. Al momento attuale solo il congedo di maternità è coperto da contributi figurativi calcolati sulla retribuzione effettiva (e solo per chi ha un lavoro regolare). Il congedo genitoriale, oltre ad essere compensato in maniera poco più che simbolica (30% dello stipendio e solo se preso entro i tre anni di vita del bambini), dà luogo a contributi figurativi ridotti, ancorché riscattabili o integrabili con versamenti volontari, e per un massimo di sei mesi e solo per le lavoratrici dipendenti che abbiano almeno 5 anni di storia contributiva. Si tenga presente che nel caso di contributi per il periodo del servizio militare (o civile alternativo a quello militare) basta aver avuto anche un solo contributo nel periodo precedente il servizio (2). E’ anche per questo – bassa remunerazione e scarsi o nulli contributi figurativi - che i padri raramente prendono il congedo genitoriale, allargando di fatto il divario con le loro compagne. Allo stesso tempo si ingenerano condizioni di disuguaglianza tra diverse figure di lavoratrici madri e tra queste e le madri fuori dal mercato del lavoro.
Ancor meno è riconosciuto il lavoro di cura prestato per persone non autosufficienti. Solo nel caso di un figlio non autosufficiente si ha diritto ad un congedo fino ad un massimo di due anni, non remunerato ma coperto da contributi figurativi di importo fisso. Nel caso, molto più frequente, di assistenza ad anziani non autosufficienti, i contributi figurativi coprono al massimo i 25 giorni annuali di permesso consentito, e solo se la persona non autosufficiente convive con la lavoratrice/lavoratore.
Invece che “compensare” le donne per il loro lavoro non pagato con una vita lavorativa remunerata più corta, ma anche con una ricchezza pensionistica più ridotta, occorrerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno in effetti una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini, con periodi di concentrazione spesso insostenibili e per cui pagano prezzi economici elevati. E’ su questo che occorre intervenire, destinando a misure sia di sostituzione (tramite i servizi) che di riconoscimento (tramite congedi remunerati e contributi figurativi) del lavoro di cura i risparmi ottenuti con l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne. Ciò consentirebbe anche di non distinguere genericamente tra “donne” e “uomini”, ma tra chi – donna o uomo – fa attività di cura per persone non autosufficienti per età o malattia e chi no.