di Chiara Saraceno, tratto da www.lavoce.info
Un’età della pensione più bassa penalizza le donne, ha sentenziato la Corte Europea. Ma eliminare questa disparità non basta. Bisognerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini e pagano prezzi economici elevati. Su questo occorre intervenire.
E’ vero che, come ha sostenuto la Corte Europea nel condannare l’Italia, una età della pensione più bassa penalizza le donne, date le loro carriere mediamente più corte e remunerazioni più basse rispetto agli uomini. Limitarsi a equiparare le età alla pensione di donne e uomini per consentire alle prime di recuperare almeno in parte il gap contributivo con i loro colleghi maschi, come propone il ministro Brunetta, senza modificare contestualmente le condizioni che ne sono all’origine, rischia tuttavia di aggiungere ingiustizia a ingiustizia, disuguaglianza a disuguaglianza.
IL LAVORO IN FAMIGLIA
Le donne, infatti, svolgono la stragrande maggioranza del lavoro domestico e di cura necessario per far funzionare una famiglia e per consentire agli stessi lavoratori di presentarsi ogni giorno al lavoro (remunerato). Viceversa gli uomini sono molto più presenti nel lavoro remunerato (e quindi coperto da contributi a fini pensionistici).E’ una differenza visibile in tutte le età e condizioni famigliari, come mostra l’indagine ISTAT 2002 sull’uso del tempo (1). Soltanto tra chi vive solo si attenua, mentre viceversa si accentua tra chi vive in coppia ed ha figli. In particolare, le donne occupate che vivono in coppia con figli lavorano per il mercato in media due ore in meno degli uomini in analoga condizione famigliare. Ma se al lavoro per il mercato si somma il lavoro domestico e di cura svolto per la famiglia (inclusi i mariti), il gap si rovescia: le donne hanno una giornata lavorativa media più lunga di un’ora e quaranta minuti. Quindi le donne occupate con carichi famigliari lavorano complessivamente in media molto più degli uomini occupati, ma guadagnano di meno ed accumulano una ricchezza pensionistica inferiore, anche se ne possono fruire mediamente per un periodo più lungo.
Si aggiunga che anche a motivo di queste loro responsabilità famigliari – effettive o anche solo presunte – le donne non solo sono meno presenti nel mercato del lavoro, ma sono più esposte alla disoccupazione e sono più concentrate degli uomini nei rapporti di lavoro a termine. Infine, molto spesso quando si ritirano dal mercato del lavoro le donne continuano a fornire più o meno intensamente lavoro di cura non solo ai mariti, ma ai nipoti e ai genitori e suoceri resi dipendenti dalla età molto avanzata, in una società come la nostra in cui mancano i servizi sia per la primissima infanzia che per la dipendenza in età anziana. Da strumento di conciliazione tra lavoro remunerato e famiglia per i loro mariti, andando in pensione (e talvolta anche prima) le donne si trasformano in strumento di conciliazione per le loro figlie e nuore, oltre che in prestatrici di cura per chi nella rete famigliare non è del tutto autosufficiente.
IN PENSIONE A CHE ETÀ?
Ma la soluzione non è il mantenimento di una diversa età pensionabile. Non basta tuttavia neppure, anche se è auspicabile, reintrodurre la flessibilità – per donne e uomini –nella età di uscita dal mercato del lavoro così come era previsto dalla riforma Dini, per consentire a ciascuno di scegliere il trade off che preferisce, o che è più adeguato alle sue necessità, tra uso del tempo e livello della pensione. Occorre soprattutto incidere sulle condizioni che, appunto, producono il gap reddituale e contributivo tra donne e uomini. In primo luogo occorre lavorare seriamente per eliminare le discriminazioni di genere che ancora esistono nel mercato del lavoro ad ogni livello – dall’accesso, alle forme contrattuali, alle possibilità di carriera. In secondo luogo vanno rafforzate le politiche di conciliazione, per donne e uomini: servizi di cura per la prima infanzia e per le persone non autosufficienti, tempi scolastici che tengano conto del fatto che oramai nella maggioranza delle famiglie entrambi i genitori – o l’unico genitore presente – sono occupati. Da questo punto di vista, la riforma Gelmini che riporta l’orario nella scuola elementare privilegiato a 24 ore è una vera e propria mossa in contrasto con questo obiettivo (si veda anche questo altro intervento).
CONTRIBUTI FIGURATIVI
Infine occorre un riconoscimento economico del lavoro di cura, sia sotto forma di congedi coperti da indennità decenti che sotto forma di contributi figurativi più sostanziosi di quelli attualmente vigenti. Al momento attuale solo il congedo di maternità è coperto da contributi figurativi calcolati sulla retribuzione effettiva (e solo per chi ha un lavoro regolare). Il congedo genitoriale, oltre ad essere compensato in maniera poco più che simbolica (30% dello stipendio e solo se preso entro i tre anni di vita del bambini), dà luogo a contributi figurativi ridotti, ancorché riscattabili o integrabili con versamenti volontari, e per un massimo di sei mesi e solo per le lavoratrici dipendenti che abbiano almeno 5 anni di storia contributiva. Si tenga presente che nel caso di contributi per il periodo del servizio militare (o civile alternativo a quello militare) basta aver avuto anche un solo contributo nel periodo precedente il servizio (2). E’ anche per questo – bassa remunerazione e scarsi o nulli contributi figurativi - che i padri raramente prendono il congedo genitoriale, allargando di fatto il divario con le loro compagne. Allo stesso tempo si ingenerano condizioni di disuguaglianza tra diverse figure di lavoratrici madri e tra queste e le madri fuori dal mercato del lavoro.
Ancor meno è riconosciuto il lavoro di cura prestato per persone non autosufficienti. Solo nel caso di un figlio non autosufficiente si ha diritto ad un congedo fino ad un massimo di due anni, non remunerato ma coperto da contributi figurativi di importo fisso. Nel caso, molto più frequente, di assistenza ad anziani non autosufficienti, i contributi figurativi coprono al massimo i 25 giorni annuali di permesso consentito, e solo se la persona non autosufficiente convive con la lavoratrice/lavoratore.
Invece che “compensare” le donne per il loro lavoro non pagato con una vita lavorativa remunerata più corta, ma anche con una ricchezza pensionistica più ridotta, occorrerebbe prendere atto che quelle di loro che si fanno carico di responsabilità famigliari hanno in effetti una vita lavorativa complessivamente più lunga e pesante di quella degli uomini, con periodi di concentrazione spesso insostenibili e per cui pagano prezzi economici elevati. E’ su questo che occorre intervenire, destinando a misure sia di sostituzione (tramite i servizi) che di riconoscimento (tramite congedi remunerati e contributi figurativi) del lavoro di cura i risparmi ottenuti con l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne. Ciò consentirebbe anche di non distinguere genericamente tra “donne” e “uomini”, ma tra chi – donna o uomo – fa attività di cura per persone non autosufficienti per età o malattia e chi no.
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